I racconti del Premio Energheia Africa Teller

Un domani migliore_Paul Kiruri Kamure

profughi 1_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia Africa Teller.

 

Traduzione di Mariella Silvestri

 

Patrick era seduto sul suo letto e reggeva una tazza di tè nero fissandola

come se fosse un rompicapo. Stava cercando di ricordare un sogno

che aveva fatto poche ore prima in cui inseguiva una creatura dal corpo

umano ma con la testa di animale che reggeva un pezzo d’oro. La

creatura si era voltata improvvisamente e aveva cominciato a inseguirlo.

Poi si era fermata e gli aveva porto il pezzo d’oro pacificamente. Cos’era

quella creatura? Perché era così indecisa e come… I suoi pensieri

furono interrotti da un leggero colpetto alla porta. Mentre poggiava

la tazza di tè nero sul tavolo per andare ad aprire la porta, questa si spalancò,

mostrando la donna, ferma sulla soglia che lo fissava.

Indossava una gonna rossa che le lambiva le ginocchia. I due bottoni

superiori della camicetta bianca erano aperti e rivelavano una catenina

d’oro. Un foulard rosso e nero intorno ai lunghi capelli neri. La faccia

era arrossata da quello che gli sembrò una miscela di odio, rabbia, amore

e disperazione. I piccoli occhi castani della donna erano scuri e le lacrime

minacciavano di cadere da un momento all’altro.

Senza dire una parola corse verso di lui e lo abbracciò stretto come se

non volesse più lasciarlo andare. Poteva percepire il dolore dentro di lei.

Sapeva che il suo cuore era stato ferito e sanguinava. Desiderò baciarla

fino a cancellare quel dolore e rassicurarla sulla profondità del suo

amore. Infine lei lo lasciò andare, ma subito gli prese una mano come

se temesse che lui potesse fuggire lontano. Mentre si sedeva sul letto i

suoi occhi esplorarono tutta la stanza.

Era una casetta di legno troppo piccola per essere considerata un’abi-

tazione dignitosa per chiunque, ma abbastanza grande per le poche cose

che possedeva. A sinistra c’era il letto che al posto del materasso aveva

una spugna lunga e sottile e un’unica coperta. Durante la notte ci dormiva,

mentre durante il giorno serviva da sedia. Dalla parte opposta c’era

un vecchio tavolo di legno su cui c’erano due tazze di cui una

conteneva il suo tè nero, un piatto, tre cucchiai, un coltello e una padella:

quelle erano tutte le stoviglie che possedeva. Accanto al tavolo

c’era una piccola stufa e una lampada di latta.

“Vado a Mombasa per tre anni”, disse infine. La sua voce era colma di

lacrime.

Lui avvertì la sensazione che un ferro arroventato fosse stato appoggiato

sulla sua pelle. Voleva farle delle domande, ma non riusciva a trovare

le parole e quindi la guardò con un’espressione interrogativa.

“Mio padre ha ingaggiato un investigatore e sa tutto di noi”, continuò.

“Ha detto che mai e poi mai sua figlia avrebbe avuto una storia con un…”,

si fermò e guardò per terra.

“Continua”.

“… povero arrampicatore sociale, analfabeta e buono a nulla”. Le lacrime

ora scorrevano copiosamente sulle sue guance.

Si sentì come se fosse stato pugnalato. Odiava che lo si rimproverasse

per colpe che non erano le sue, ma non voleva che lei vedesse il suo dolore.

La abbracciò e le promise che il loro amore avrebbe superato la

prova del tempo.

“Devo andare”, disse lei con l’aspetto ancora distrutto, ma sentendosi

un pò meglio. “Sono sicura che le orecchie e gli occhi dell’investigatore

sono su di me. Temo ciò che potrebbe farti mio padre, ma ricorda:

non importa quanto saremo lontani, tu sarai sempre nel mio cuore”.

Alla porta la salutò con un bacio e la seguì con gli occhi mentre andava

via. Pensò a quel momento come se fosse l’ultima volta che le parlava,

la baciava e forse addirittura l’ultima volta che la vedeva. La guardò

finché non scomparve, lontana dalla sua vista, ma certo non dalla sua

mente. Riusciva a ricordare ancora chiaramente come si erano conosciuti

diciotto mesi prima, come se fosse appena successo.

Si era alzato presto e pieno di energie quel giovedì mattina era andato

alla casa dei bambini di Imani. Era una giornata calda, asciutta e senza

vento, una tipica giornata di dicembre nel Kenia centrale. Le brevi piogge

erano terminate ma si potevano ancora percepire i loro effetti. L’erba

era cresciuta e il giardino ne era ricoperto. La stagione delle feste si

stava avvicinando rapidamente e sempre più persone cominciavano a

preoccuparsi del benessere dei meno fortunati. Alcuni portavano vestiti,

altri cibo, alcuni regalavano delle palle o altri giocattoli, molti donavano

soldi, ma per quelli che non possedevano molto come Patrick, l’energia

personale era l’unica cosa che potevano dare e la davano con tutto

il cuore.

Aveva cominciato col piede giusto e aveva fatto un lavoro eccellente

con il giardino. Non si sarebbe mai potuto dire che non fosse un grande

lavoratore. Ora era concentrato a tagliare l’erba, con gli occhi e la

mente assorti nel suo lavoro e non si accorse del suo arrivo.

“Ciao”, lo salutò. “Sono Clare”.

“Ciao, Clare”, rispose lui e girandosi vide una ragazza carina di circa

vent’anni che gli sorrideva, mentre gli occhi contraddicevano il sorriso,

mostrandone la solitudine.

“Mi chiamo Patrick”.

“Sei tu che hai ripulito il giardino dalle erbacce?”, indagò. “Sono stata

qui ieri e sembrava un cespuglio incolto”.

“Sì”, rispose senza esitazioni. Lei era chiaramente impressionata.

“È la prima volta che vieni qui?”.

“No”. Si ritrovò a spiegarle che quella era stata la sua casa nei primi sedici

anni della sua vita. Sua madre era morta dandolo alla luce, un fiume

che aveva esaurito il suo corso. Era stato fra i primi bambini di questa

casa al tempo in cui venivano offerti solo cibo, abiti e un riparo, ma

nessun tipo di istruzione.

Lei andò via ma prima gli disse che le sarebbe piaciuto incontrarlo il

sabato seguente per conoscersi meglio. I suoi genitori sarebbero stati via

e lei avrebbe potuto dare un pomeriggio libero alla servitù. Gli spiegò

il posto esatto in cui le sarebbe piaciuto incontrarsi.

Il venerdì sembrò che il tempo non passasse mai. Pensò a lei e immaginò

con disappunto che lei volesse solo parlare con qualcuno quel

giorno e che non si sarebbe fatta vedere. Era anche preoccupato che lei

si sarebbe potuta far vedere, ma la gioia di vederla poteva essere supe-

rata dalla vergogna di non essere accettato dai suoi genitori se avessero

saputo della sua povertà.

Il sabato pomeriggio non ebbe problemi nell’individuarla nel posto in

cui si dovevano incontrare e lei lo portò a casa sua. Oltre il cancello c’era

un giardino con rose rosse, erba verde di Cina, erba giallo-verde, ibischi

ibridi color porpora, fiori arancio e bianchi e una serie di altri fiori

che non conosceva. Era sicuro che nei suoi ventisette anni non aveva

mai visto niente di così bello.

La casa era una massiccia costruzione in pietra con un tappeto rosso sul

pavimento del salotto. C’erano quattro diversi tipi di divani e al centro

della stanza c’era un tronco di mogano giallo oro lucido che fungeva da

tavolo. La maggior parte delle apparecchiature elettroniche nella stanza

erano per lui sconosciute. Sulle cornici c’erano pietre di valore e intagli

che dimostravano la stabilità economica e l’abilità in campo finanziario

degli abitanti di quella casa.

Gli parlò della sua solitudine e lui per questo le offrì la sua amicizia incondizionata.

Parlò della sua povertà e lei si offrì di trovargli un lavoro

come autista e giardiniere nella vicina scuola. Da quel giorno quella

loro amicizia casuale, che gratificava entrambi, crebbe fino a diventare

un profondo sentimento d’amore che fu però mantenuto segreto, conosciuto

solo da loro e così era avvenuto che Patrick non aveva mai conosciuto

i genitori di Clare.

Patrick chiuse la porta della sua stanza e si recò verso la Hekima School

assorto nei suoi pensieri. Pensava alla partenza di Clare e alla creatura

del suo sogno. Cominciò a innaffiare i fiori che era il suo primo compito.

Non ci voleva un genio per capire che il suo lavoro quel giorno

avrebbe lasciato molto a desiderare. Il direttore della scuola nel pomeriggio

lo chiamò e gli chiese di accompagnare all’ospedale tre studenti

che avevano mal di pancia.

L’ospedale di Kikuyu, essendo il secondo del distretto per grandezza,

ha vari reparti, oculistica, medicina generale e un’impresa di pompe funebri.

In una stanzetta con un’unica finestra che sembrava un chiosco,

Patrick pagò trecento scellini come ticket per gli studenti che furono introdotti

nella sala d’aspetto. Essa era un lungo corridoio con le corsie

da uno a cinque da un lato e da sei a undici dall’altro. Quando entraro-

no nella sala d’aspetto una infermiera e una donna dall’aspetto distrutto

dal dolore e dall’ansia, il cui nome Patrick avrebbe poi saputo essere

Anderson, stavano facendo una richiesta disperata, non ai pazienti ma

a coloro che li accompagnavano. La loro preghiera, comunque sembrò

passare inascoltata.

“Abbiamo un paziente che ha urgente bisogno di sangue di tipo B -. Se

non riceverà una trasfusione al più presto morirà. Se avete questo tipo

di sangue e sentite di farlo, per favore fatelo”, diceva l’infermiera.

“Per favore, aiutate mio marito. Fate finta che lui sia vostro fratello, vostro

figlio, vostro padre o vostro marito, sono sicura che gli dareste una

mano. Ricordate che la mano che dà è la stessa che riceve”, supplicava

la signora Anderson.

Patrick aveva già donato il suo sangue e sapeva che era di tipo B -. Pensò

che fosse una buona opportunità per restituire alla comunità quanto

aveva già ricevuto. E si offrì volontario per donare il suo sangue. La faccia

della signora Anderson adesso era illuminata dalla gioia mentre

stringeva la mano di Patrick e lo ringraziava mille volte. Provò un amore

travolgente per quel giovane e desiderò poterglielo dimostrare. Ciò

che Patrick non sapeva era che quella era la madre di Clare. Gli fu assicurato

che gli studenti sarebbero stati riportati a scuola dopo essere

stati curati e poi si recò al laboratorio trasfusionale con l’infermiera, mentre

la signora Anderson andava a dare la buona notizia al marito.

Il signor Anderson era steso sul suo letto stanco ma vigile. Pensava alla

sua enorme ricchezza, alla sua grande casa, ai suoi migliaia di acri di

terra, al suo polposo conto in banca, alla sua nuova macchina costosa e

quanto fosse ironico che la sua ricchezza ora non potesse aiutarlo. Pensava

a tutte le cose che la ricchezza non poteva comprare, la salute, la

gentilezza, la generosità, il sangue e l’amore. Pensò all’amore. Aveva

mandato la sua unica figlia a Mombasa per separarla dall’uomo che amava

e avere l’opportunità di spazzarlo via dalla sua vita. Ora che la morte

lo fissava e bussava alla sua porta desiderò con rimpianto di poterla

vedere e benedirla, ma sapeva che era troppo tardi.

Si chiese che tipo di persona fosse. Da un lato andava in chiesa e dava

dei soldi a sua moglie e a sua figlia affinché li donassero ai meno fortunati

della società, mentre dall’altro progettava di uccidere il fidanza-

to di sua figlia. Pensò a un camaleonte che cambia colore per adattarsi

all’ambiente. Anche lui era così.

“Tesoro, abbiamo trovato un donatore”, disse la signora Anderson con

ottimismo. Lo chiamava sempre tesoro ed era stata sempre al suo fianco,

nei momenti buoni e in quelli cattivi. La gioia di suo marito era la

sua gioia, così come le sue lacrime, ed era sempre la spalla su cui lui

poteva appoggiarsi. Entrò il dottore e le chiese di uscire e ritornare il

mattino seguente così come aveva chiesto di fare a Patrick dopo che aveva

donato il suo sangue.

Patrick arrivò il mattino seguente pochi minuti dopo la signora Anderson

e andò diritto alla stanza del signor Anderson. Sembrava molto più

forte e determinato a vivere.

“Tesoro, questo è il brav’uomo che ha donato il sangue”, disse la signora

Anderson presentando Patrick a suo marito.

In un attimo il signor Anderson esaminò Patrick da testa a piedi e non vide

la povertà rappresentata dai vestiti che indossava, ma la ricchezza interiore

che si manifestava attraverso la generosità che dimostrava anche

verso gli estranei. Allungò la mano e tenne ben stretta quella di Patrick.

“Lei ha veramente un cuore d’oro”, cominciò a dire, traendo le parole

dalla parte più profonda del cuore. “Lei mi ha aiutato nel peggior momento

della mia vita. Per un uomo che sta morendo di sete, un bicchier

d’acqua vale più dell’oro. Mi chieda quel che desidera e farò l’impossibile

per esaudire il suo desiderio”.

Fuori, Clare era appena arrivata con un aereo e l’infermiera l’aveva fatta

entrare, informandola che nella stanza c’erano solo i suoi genitori e

l’uomo che aveva aiutato suo padre a vincere la battaglia per la vita.

“Non voglio nulla da lei, signore”, disse Patrick. “Desidero solo…”.

La porta si spalancò. “Papà, Patrick, mamma”, urlò Clare mentre richiudeva

la porta dietro di lei, andava al capezzale di suo padre, si inginocchiava

e, dopo averlo baciato, si alzava per abbracciare Patrick e

sua madre. Si resero subito conto di quali fossero i rapporti che li legavano.

Le loro facce mostravano sorpresa e incredulità.

La luna splendeva luminosa. Un venticello soffiava piano, come se cantasse

una dolce canzone di gioia e vittoria per Clare. Dal cancello po-

teva ora ammirare la bellezza del giardino di cui in tanti avevano parlato,

ma alla quale i suoi occhi erano rimasti ciechi, anche nella luce

piena del giorno.

Sorrise ai fiori, non con quel sorriso che esprimeva solitudine che aveva

un tempo, no, la solitudine non faceva più parte della sua storia così

come la povertà non lo era più della storia di Patrick. Guardò la miriade

di stelle nel cielo e le tantissime persone che erano venute per

stare con lei quella sera. Domani si sarebbe sposata.